L'altra faccia delle Maldive
Inviato: ven dic 21, 2007 4:14 pm
L'altra faccia delle Maldive
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C'è la storia di Evan, mai tornato a casa. E quella di Ic, che lotta per la libertà del suo popolo. Tutto quello che i turisti in cerca del sogno non vedranno mai
di ERWIN KOCH
La madre apre una borsa di plastica, estrae una foto, la mette sulla macchina da cucire, la guarda, resta in silenzio. Trema. "Dalle orecchie", dice, "gli usciva la sabbia bianca". La stessa sabbia che, unita al verde trasparente di questo mare, incanta i turisti che arrivano qui a Male, capitale delle Maldive, vengono portati sulle cento isole precluse agli abitanti e nulla vedono o sanno che possa disturbare il loro sogno. Certo non la storia di un giovane uomo, chiamato Evan e di sua madre Mariyam, di IC, di Hussein Salah....
Evan Naseem, il secondo figlio di Mariyam Manike, è morto a 19 anni, il 19 settembre 2003, di mercoledì. Come un terzo dei giovani maldiviani era tossicodipendente: era stato trovato con della droga e portato nella prigione-isola di Maafushi. In carcere c'era stata una rissa, lui si era tenuto in disparte, ma le guardie andarono a prenderlo lo stesso: "Non mi toccate", aveva urlato, afferrando un pezzo di legno. Le guardie arrivarono, lo legarono ad un palo e lo picchiarono in dodici. Con pugni, calci e bastoni. Poi lo lasciarono per terra, senza vita, sulla sabbia bianca.
Mariyam Manike ricorda che una guardia bussò alla sua porta: doveva chiamare il suo capo, le disse, il capo delle guardie. Suo figlio è morto, annunciò quello. Qualcuno la accompagnò a vedere il cadavere, ma le mostrarono solo il volto. Lei però strappò il lenzuolo: vide ematomi, ferite, sangue. Uno disse: il cadavere deve essere immediatamente seppellito, come comanda Dio. Non prima, urlò Mariyam, che lo veda il mondo. Al funerale c'erano centinaia di persone. Più tardi la gente diede fuoco ad alcune stazioni di polizia di Male, all'ufficio del tribunale, all'alto Parlamento, mentre nel carcere di Maafushi cominciò una rivolta dei prigionieri. Le guardie uccisero tre detenuti, ne ferirono diciassette.
Maumoon Abdul Gayoom dichiarò il coprifuoco e lo stato d'emergenza, sospendendo i poteri costituzionali. Poteva, anzi può farlo. Ha un mandato che lo fa succedere a se stesso sin dal 1978: è presidente, capo della polizia, dell'esercito, dei vigili del fuoco, della giustizia e, fino a qualche tempo fa, anche delle finanze e della Banca centrale. Possiede una pista d'atterraggio, un'isola privata e partecipazioni nei complessi turistici, unica ricchezza del paese. I suoi ministri sono tutti amici o parenti. Dopo la morte di Evan, per sedare la protesta popolare, Gaymoon insediò una commissione d'inchiesta e gli autori dell'omicidio furono arrestati. Di recente la loro condanna a morte è stata trasformata in ergastolo.
Mariyam Manike continua il suo racconto: "Undici mesi dopo la morte di Evan ci riunimmo nella grande piazza davanti al quartiere generale della polizia perché cinque democratici riformisti erano stati arrestati. Venne il buio e nella piazza eravamo ormai 10 mila. La polizia entrò con i carri armati e ci inseguì per la città. Io urlai: avete ucciso mio figlio, Evan Naseem".
Il presidente Gayoom parlò di sollevazione contro la patria, fece arrestare 600 persone, oscurò internet.
Da Maryam la polizia arrivò il giorno successivo: uno tirò fuori un manganello e cominciò a picchiarla. Si mise a ridere quando il sangue cominciò a ricoprirle le gambe e piedi. Era il 13 agosto 2004. Fu portata prima sull'isola di Girifushi, luogo d'addestramento della polizia, poi a Dhoonidhoo, l'isola degli interrogatori che si trova a nord, non lontano dall'aeroporto in cui arrivano turisti ignari. Lì qualche volta, con le catene ai piedi, poteva uscire per fare il bucato e vedeva gli assassini del figlio, dodici uomini che giocavano a carte, parlando forte e allegri. Un giorno incontrò un prigioniero con i capelli neri e lunghi; tremava dalla paura e dal dolore, le disse di chiamarsi IC. L'11 ottobre 2004, la polizia la rimandò a casa. Dopo lo tsunami il presidente Gayoom concesse l'indulto. Oggi Mariyam dice: "Non sono più lo stessa". Ma, dopo la morte di Evan, secondo lei "anche lo stato non è più lo stesso". Vero: i maldiviani si sono ribellati per la prima volta, l'unione Europea ha iniziato a chiedere riforme. Due anni fa, Gaymoon ha dovuto autorizzare altri partiti politici. Come quello dei suoi oppositori, il partito democratico che ha la sua roccaforte nell'atollo di Addu.
Nella sala da pranzo dell'unico hotel di Gan, atollo di Addu, sta seduto l'uomo che Mariyam ricorda. "Non voglio fare la rivoluzione", dichiara Abdullah Rasheed, che tutti chiamano IC. "Vorrei che ci fossero elezioni libere e pacifiche, un Parlamento che rappresenti il popolo". Mesi fa, racconta, Gaymoon era arrivato qui per inaugurare una pista di atterraggio. La polizia aveva ordinato alla popolazione di dipingere le case, rastrellare le aree verdi e mettersi ai lati della strada per applaudire. Chi rimane a casa verrà arrestato, avevano minacciato. "Due giorni prima", ricorda Ic "avevamo scritto slogan sui muri della città: dove sono le riforme? Dov'è la nuova costituzione? Anni, il segretario del Partito democratico, era venuto per aiutarci. Hussein Salah è stato il suo autista. Ha pagato con la vita".
La strada più lunga della Repubblica, 18 chilometri, unisce quattro isole: Gan appunto e poi Feydu, Maradhu, Hithadhu. Lungo i lati palme e baracche con il tetto di lamiera ondulata, davanti alle quali le donne pestano il corallo e gli uomini riempiono di finissima sabbia bianca dei sacchetti che rivendono a 20 centesimi di euro l'uno come materiale per la costruzione. Anche Hussein Salah, 30 anni, riempiva sacchetti di sabbia. Il 7 aprile 2007, ha portato sulla sua moto Anni, il segretario dei democratici: lo aveva conosciuto nel carcere di Maafushi. Qualche ora dopo, Anni ricevette un sms: "uno di voi due deve morire".
La sera del 9 aprile, la polizia andò a prelevare Hussein. Il 12 aprile, lui chiamò da Male. "Aveva detto che sarebbe tornato presto", si dispera oggi il fratello Ibrahim Zareer in questa piccola casa di cemento e lamiera a Naazukee Hingun, Hithadhu, nell'atollo di Addu. Dietro di lui, quasi cieco, c'è il padre, accanto la madre, i fratelli, le sorelle. La sera del giorno dopo un poliziotto telefonò riferendo che Hussein era stato liberato. Ma la mattina del 15 aprile i pescatori trovarono il suo cadavere sulla costa a sud di Male. All'ospedale, un medico esaminò il corpo: il volto e il corpo erano gonfi e coperti di sangue, il setto nasale fratturato, gli mancavano alcuni denti. Causa della morte: not known (sconosciuta). Il fratello partì per Male. "Il cadavere, gonfio e maleodorante, era nella morgue di Galholu, senza refrigerazione. "Tuo fratello deve essere seppellito subito, così vuole Dio", mi dissero. Ma io risposi che volevo l'autopsia". Davanti alla morgue si erano raccolte prima decine di persone, poi centinaia. La polizia arrivò a disperderle. La televisione di stato comunicò che Hussein Salah era un tossicodipendente e un ladro e che era stato rilasciato dalla polizia due giorni prima. "Volevo un'autopsia", piange oggi il fratello cullando la figlia.
L'autopsia è stata effettuata, il 21 aprile 2007, a Colombo, nello Sri Lanka. Alle 4 del pomeriggio il medico ha chiamato il fratello di Hussein, e gli ha detto di avere mandato il rapporto all'ambasciatore delle Maldive a Colombo. "Mezz'ora più tardi", balbetta il fratello, "mio zio ci ha detto che la televisione di Stato aveva appena sostenuto che Hussein era annegato, che il corpo non presentava ferite o fratture e che era da escludere una morte imputabile a violenza fisica".
Improvvisamente, il padre si raddrizza sulla sedia: "Mi chiamo Hassan Zareer, solo un uomo anziano e conosco la vita degli uomini. Il medico di Colombo è anziano come me. Due governi, quello maldiviano e quello dello Sri Lanka, lo hanno convinto, volevano un risultato a loro gradito. Si diventa molto deboli quando si è anziani".
(ha collaborato Assunta Sarlo)
(21 dicembre 2007)
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C'è la storia di Evan, mai tornato a casa. E quella di Ic, che lotta per la libertà del suo popolo. Tutto quello che i turisti in cerca del sogno non vedranno mai
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La madre apre una borsa di plastica, estrae una foto, la mette sulla macchina da cucire, la guarda, resta in silenzio. Trema. "Dalle orecchie", dice, "gli usciva la sabbia bianca". La stessa sabbia che, unita al verde trasparente di questo mare, incanta i turisti che arrivano qui a Male, capitale delle Maldive, vengono portati sulle cento isole precluse agli abitanti e nulla vedono o sanno che possa disturbare il loro sogno. Certo non la storia di un giovane uomo, chiamato Evan e di sua madre Mariyam, di IC, di Hussein Salah....
Evan Naseem, il secondo figlio di Mariyam Manike, è morto a 19 anni, il 19 settembre 2003, di mercoledì. Come un terzo dei giovani maldiviani era tossicodipendente: era stato trovato con della droga e portato nella prigione-isola di Maafushi. In carcere c'era stata una rissa, lui si era tenuto in disparte, ma le guardie andarono a prenderlo lo stesso: "Non mi toccate", aveva urlato, afferrando un pezzo di legno. Le guardie arrivarono, lo legarono ad un palo e lo picchiarono in dodici. Con pugni, calci e bastoni. Poi lo lasciarono per terra, senza vita, sulla sabbia bianca.
Mariyam Manike ricorda che una guardia bussò alla sua porta: doveva chiamare il suo capo, le disse, il capo delle guardie. Suo figlio è morto, annunciò quello. Qualcuno la accompagnò a vedere il cadavere, ma le mostrarono solo il volto. Lei però strappò il lenzuolo: vide ematomi, ferite, sangue. Uno disse: il cadavere deve essere immediatamente seppellito, come comanda Dio. Non prima, urlò Mariyam, che lo veda il mondo. Al funerale c'erano centinaia di persone. Più tardi la gente diede fuoco ad alcune stazioni di polizia di Male, all'ufficio del tribunale, all'alto Parlamento, mentre nel carcere di Maafushi cominciò una rivolta dei prigionieri. Le guardie uccisero tre detenuti, ne ferirono diciassette.
Maumoon Abdul Gayoom dichiarò il coprifuoco e lo stato d'emergenza, sospendendo i poteri costituzionali. Poteva, anzi può farlo. Ha un mandato che lo fa succedere a se stesso sin dal 1978: è presidente, capo della polizia, dell'esercito, dei vigili del fuoco, della giustizia e, fino a qualche tempo fa, anche delle finanze e della Banca centrale. Possiede una pista d'atterraggio, un'isola privata e partecipazioni nei complessi turistici, unica ricchezza del paese. I suoi ministri sono tutti amici o parenti. Dopo la morte di Evan, per sedare la protesta popolare, Gaymoon insediò una commissione d'inchiesta e gli autori dell'omicidio furono arrestati. Di recente la loro condanna a morte è stata trasformata in ergastolo.
Mariyam Manike continua il suo racconto: "Undici mesi dopo la morte di Evan ci riunimmo nella grande piazza davanti al quartiere generale della polizia perché cinque democratici riformisti erano stati arrestati. Venne il buio e nella piazza eravamo ormai 10 mila. La polizia entrò con i carri armati e ci inseguì per la città. Io urlai: avete ucciso mio figlio, Evan Naseem".
Il presidente Gayoom parlò di sollevazione contro la patria, fece arrestare 600 persone, oscurò internet.
Da Maryam la polizia arrivò il giorno successivo: uno tirò fuori un manganello e cominciò a picchiarla. Si mise a ridere quando il sangue cominciò a ricoprirle le gambe e piedi. Era il 13 agosto 2004. Fu portata prima sull'isola di Girifushi, luogo d'addestramento della polizia, poi a Dhoonidhoo, l'isola degli interrogatori che si trova a nord, non lontano dall'aeroporto in cui arrivano turisti ignari. Lì qualche volta, con le catene ai piedi, poteva uscire per fare il bucato e vedeva gli assassini del figlio, dodici uomini che giocavano a carte, parlando forte e allegri. Un giorno incontrò un prigioniero con i capelli neri e lunghi; tremava dalla paura e dal dolore, le disse di chiamarsi IC. L'11 ottobre 2004, la polizia la rimandò a casa. Dopo lo tsunami il presidente Gayoom concesse l'indulto. Oggi Mariyam dice: "Non sono più lo stessa". Ma, dopo la morte di Evan, secondo lei "anche lo stato non è più lo stesso". Vero: i maldiviani si sono ribellati per la prima volta, l'unione Europea ha iniziato a chiedere riforme. Due anni fa, Gaymoon ha dovuto autorizzare altri partiti politici. Come quello dei suoi oppositori, il partito democratico che ha la sua roccaforte nell'atollo di Addu.
Nella sala da pranzo dell'unico hotel di Gan, atollo di Addu, sta seduto l'uomo che Mariyam ricorda. "Non voglio fare la rivoluzione", dichiara Abdullah Rasheed, che tutti chiamano IC. "Vorrei che ci fossero elezioni libere e pacifiche, un Parlamento che rappresenti il popolo". Mesi fa, racconta, Gaymoon era arrivato qui per inaugurare una pista di atterraggio. La polizia aveva ordinato alla popolazione di dipingere le case, rastrellare le aree verdi e mettersi ai lati della strada per applaudire. Chi rimane a casa verrà arrestato, avevano minacciato. "Due giorni prima", ricorda Ic "avevamo scritto slogan sui muri della città: dove sono le riforme? Dov'è la nuova costituzione? Anni, il segretario del Partito democratico, era venuto per aiutarci. Hussein Salah è stato il suo autista. Ha pagato con la vita".
La strada più lunga della Repubblica, 18 chilometri, unisce quattro isole: Gan appunto e poi Feydu, Maradhu, Hithadhu. Lungo i lati palme e baracche con il tetto di lamiera ondulata, davanti alle quali le donne pestano il corallo e gli uomini riempiono di finissima sabbia bianca dei sacchetti che rivendono a 20 centesimi di euro l'uno come materiale per la costruzione. Anche Hussein Salah, 30 anni, riempiva sacchetti di sabbia. Il 7 aprile 2007, ha portato sulla sua moto Anni, il segretario dei democratici: lo aveva conosciuto nel carcere di Maafushi. Qualche ora dopo, Anni ricevette un sms: "uno di voi due deve morire".
La sera del 9 aprile, la polizia andò a prelevare Hussein. Il 12 aprile, lui chiamò da Male. "Aveva detto che sarebbe tornato presto", si dispera oggi il fratello Ibrahim Zareer in questa piccola casa di cemento e lamiera a Naazukee Hingun, Hithadhu, nell'atollo di Addu. Dietro di lui, quasi cieco, c'è il padre, accanto la madre, i fratelli, le sorelle. La sera del giorno dopo un poliziotto telefonò riferendo che Hussein era stato liberato. Ma la mattina del 15 aprile i pescatori trovarono il suo cadavere sulla costa a sud di Male. All'ospedale, un medico esaminò il corpo: il volto e il corpo erano gonfi e coperti di sangue, il setto nasale fratturato, gli mancavano alcuni denti. Causa della morte: not known (sconosciuta). Il fratello partì per Male. "Il cadavere, gonfio e maleodorante, era nella morgue di Galholu, senza refrigerazione. "Tuo fratello deve essere seppellito subito, così vuole Dio", mi dissero. Ma io risposi che volevo l'autopsia". Davanti alla morgue si erano raccolte prima decine di persone, poi centinaia. La polizia arrivò a disperderle. La televisione di stato comunicò che Hussein Salah era un tossicodipendente e un ladro e che era stato rilasciato dalla polizia due giorni prima. "Volevo un'autopsia", piange oggi il fratello cullando la figlia.
L'autopsia è stata effettuata, il 21 aprile 2007, a Colombo, nello Sri Lanka. Alle 4 del pomeriggio il medico ha chiamato il fratello di Hussein, e gli ha detto di avere mandato il rapporto all'ambasciatore delle Maldive a Colombo. "Mezz'ora più tardi", balbetta il fratello, "mio zio ci ha detto che la televisione di Stato aveva appena sostenuto che Hussein era annegato, che il corpo non presentava ferite o fratture e che era da escludere una morte imputabile a violenza fisica".
Improvvisamente, il padre si raddrizza sulla sedia: "Mi chiamo Hassan Zareer, solo un uomo anziano e conosco la vita degli uomini. Il medico di Colombo è anziano come me. Due governi, quello maldiviano e quello dello Sri Lanka, lo hanno convinto, volevano un risultato a loro gradito. Si diventa molto deboli quando si è anziani".
(ha collaborato Assunta Sarlo)
(21 dicembre 2007)